Lettera di una donna ricoverata in manicomio
11 Gennaio 1956
“Sono ricoverata da parecchi anni in manicomio. Vecchia, sola e soggetta ad attacchi epilettici. Ma la mia mente non è offuscata al punto di non accorgermi delle ingiustizie che talvolta la società commette.
“So che tutti gli anni, a Natale e all’Epifania, la solidarietà umana verso chi è degente negli ospedali o ricoverato negli ospizi per la vecchiaia. Un pacco, un piccolo sussidio, una parola di conforto, un segno di interessamento da parte degli Enti preposti alla pubblica assistenza.
“Ma queste encomiabili iniziative non varcano i cancelli degli Istituti psichiatrici. Quanto meno, sono sconosciute nell’Istituto che mi ospita.
“Perché solo a noi è negata la gioia di sentirci, sia pure per un giorno, meno esiliate dal mondo? Parecchie di noi non usciranno più da questo triste luogo, si possono considerare condannate al carcere a vita anche se la cella di un manicomio non è paragonabile a quella di una prigione. Senza alcuna colpa, abbiamo perduto il bene più prezioso: la libertà. Noi crediamo, tuttavia, di aver anche cessato di appartenere alla comunità umana.
“Qui dentro si dimenticano, a poco a poco, tante cose. Ma non ci si dimentica di soffrire.
“Non chiediamo privilegi, non accampiamo diritti. Ma la società si sente in obbligo di ricordarsi, ogni tanto, degli infelici che sono all’ospedale o all’ospizio, non dovrebbe ignorare gli sventurati come noi, che per loro fortuna (o per loro disgrazia?) sanno ancora distinguere un raggio di sole da un sipario di nebbia, cioè la comprensione dall’oblio”.
Segue la firma
Note
La presente Lettera è stata pubblicata venerdì 27 novembre 2015 sul quotidiano La Stampa a Le lettere di specchio in cui, ogni giorno è riproposta una lettera dall’archivio di Specchio dei tempi.
www.lastampa.it