Se questo è un uomo, Primo Levi

Se questo è un uomo, Primo Levi

Se questo è un uomo è la testimonianza coraggiosa e atroce di Primo Levi sulle cose subite e viste all’interno del campo di concentramento di Auschwitz durante la sua deportazione. L’intento del libro, come afferma Levi, non è quello di formulare nuovi capi di accusa, perché non aggiunge nulla a quello che già si conosce sui campi di distruzione umana.
Nel corso della lettura ci si accorgerà di quanto spazio Levi abbia dedicato ai sentimenti dell’animo umano; alla sua necessità e al  bisogno di raccontarci e di renderci partecipi dell’esperienza disumana di prigionia senza pretendere di essere compreso, ed è bene che sia così, scrive Levi, ed aggiunge:
È forse un bene che l’estrema degradazione dell’uomo nei campi di concentramento non venga compresa appieno nel futuro prossimo o lontano: potrebbe essere il segno che una simile degradazione è scomparsa dal mondo delle cose che esistono. Ma è veramente scomparsa in tutti i paesi?

Se questo è un uomo

Il 13 dicembre del 1943 Primo Levi, essendo ebreo e antifascista, viene catturato dalla Milizia fascista a seguito delle leggi razziali e, dopo un lungo e sofferto viaggio in un treno merci tra il freddo e la sete, Levi giunge ad Auschwitz insieme ad altri prigionieri e successivamente deportato nel campo di concentramento di Buna-Monowitz.
Al suo arrivo ad Auschwitz, Primo Levi e gli altri prigionieri vengono smistati dalle SS attraverso una rapida e sommaria scelta sulla base di chi era abile al lavoro o no per il Reich. Quando questo tipo di scelta non veniva utilizzata, era il caso a scegliere chi si sarebbe salvato o sarebbe andato in camera a gas.
Di molte donne insieme ai loro figli, anziani e malati non si seppe più nulla, la notte li inghiottì, puramente e semplicemente.

Oltre alle persone amate, ai prigionieri (Häftling in tedesco), viene tolto tutto quanto possiedono di materiale e affettivo assieme alla dignità e al discernimento. Non si è chiamati neppure per nome ma attraverso il numero di registrazione tatuato sul braccio. Levi viene registrato con il numero 174517.

La vita all’interno del Lager dove i giorni si somigliano tutti è misera e Primo Levi ci racconta il trascorrere di quei giorni, tra la disperazione e la continua ricerca di se stesso, in un luogo dove nel prigioniero non si ravvisa l’uomo, bensì una cosa.
Ci riferisce del sentimento di attesa e terrore che si prova all’avvicinarsi del suono della sveglia, sempre assai prima dell’alba, dopo una notte passata tra il sonno, la veglia e l’incubo poiché il mattino è il momento della sentenza e la guardia seleziona chi è ancora idoneo al lavoro e quindi potrà continuare a “vivere”, mentre gli altri saranno destinati a morire.
Anche se per quel giorno si è “salvi” le condizioni delle persone che lavorano sono inimmaginabili, provate a pensare di avere i piedi su delle suole di legno e camminare tra il fango e la neve con pesanti carichi sulle spalle da trasportare sino al tramonto, con gli abiti sgualciti e rattoppati che non riparano dal freddo.

Provate a immaginare di dover lavorare in questo modo con un corpo infine stremato dalla fatica, dal dolore per le ferite e indebolito dalla fame cronica e dalla sete.

La fame cronica, sconosciuta agli uomini liberi, porta a una trasformazione delle persone, si perde la facoltà di ragionare, l’istinto alla sopravvivenza prende il sopravento e ci spinge a commettere degli atti che vanno a discapito dell’altro. Questa situazione si può riassumere con una frase che Dante Alighieri scrive nei primi anni dell’esilio nel suo saggio Convivio: lo pensiero è propio atto de la ragione, perché le bestie non pensano.

Nel lager l’essere umano ritorna ad essere una bestia che rischia le percosse anche per un “solo” torso di pane duro che, per chi soffre la fame, ha un valore inestimabile.

Continuare la lettura di Se questo è un uomo

La lettura di Se questo è un uomo non è semplice per via dell’orrore descritto, io stessa arrivata alla fine del capitolo I sommersi e i salvati non ero riuscita a continuarne la lettura. Lo avevo ormai riposto nella libreria quando, qualche mese dopo, un mio amico mi chiese se lo avevessi terminato e gli risposi di no, di aver smesso di leggerlo per via della crudeltà dei fatti che vengono raccontati. Allora lui mi aveva detto: E pensare che c’è un capitolo bellissimo, s’intitola Il canto di Ulisse. Ricordo ancora l’emozione che avevo provato quando lo avevo letto!
In questo capitolo Primo Levi ci racconta del suo rapporto umano con Jean, il Pikolo del suo commando, con cui instaura finalmente un’amicizia che permetterà a entrambi di ritrovare se stessi parlando delle loro case, di Strasburgo e di Torino, delle loro letture, dei loro studi e delle loro madri. E durante uno dei lunghi tragitti verso la cucina, Primo Levi cerca di insegnare l’italiano a Jean e per farlo utilizza proprio Il canto di Ulisse soffermandosi in particolar modo su questa terzina:

Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e canoscenza.

Nel cercare di tradurla in francese, Primo Levi si accorge di quanto questo passo del Canto parli di lui e di tutti gli uomini in travaglio e per un momento riesce a dimenticare chi è e dove si trova.
Le parole che Ulisse rivolge ai suoi compagni sono ora rivolte a Primo Levi e Pikolo che ritrovano la forza per continuare a sperare e ad andare avanti.

L’importanza di leggere Se questo è un uomo di Primo Levi

George Grosz, Eclisse di sole, 1926

Ad un incontro letterario lo scrittore torinese Andrea Roccioletti diceva, riguardo alla lettura, che leggere un libro è un atto coraggioso da cui si esce trasformati e non è possibile ritornare indietro.
L’intento di Se questo è un uomo non è tanto capire quanto è avvenuto nei Lager perché, come scrive Primo Levi nell’Appendice, e concorde con alcuni storici quali Bullock, Schramm, Bracher: l’antisemitismo non si può comprendere anzi, non si deve comprendere poiché in questo modo, si giustificherebbe quanto è avvenuto.
E aggiunge: “comprendere” significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri.

“Ciò che dobbiamo capire è da dove nasce e quali sono i motivi che possono portare all’odio e alla follia incontrollata. Conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. E che i mostri esistono, come Hitler e Mussolini, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolose le persone comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Heichmann, Hoss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam.”

Inoltre, da questo libro si apprende quanto sia importante la resistenza contro chi cerca di oscurare le nostre coscienze. E che questa resistenza nasce dal voler sapere, dal porsi delle domande a dal rivolgere agli altri le stesse ma soprattutto dal rispondere a queste.

Come scritto in Se questo è un uomo, nella Germania Hitleriana era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva.
In questo modo oltre a difendere la propria ignoranza, il cittadino tedesco tipico si costruiva l’illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere a complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta.

Questo consenso sociale è lo stesso atteggiamento che ha permesso di far attecchire le organizzazioni mafiose.

In questo senso, la scrittrice Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male – Heichmann a Gerusalemme parla anche dei fratelli Scholl, Sophie e Hans insieme al loro amico Christoph Probst, che facevano parte del gruppo la “Rosa Bianca” emblema della ribellione non violenta alla Germania nazista. La Arendt sostiene che se ci fossero state più persone come loro i fatti sarebbero diversi.

Gli obiettivi dell’oggi per il domani

Sara Cariola è responsabile della cultura della Circoscrizione quattro di Torino ed è spesso stata invitata da alcuni Licei per parlare ai ragazzi del giorno della memoria. e si è chiesta come poteva farlo dal momento che non è una testimone attiva, per ragioni anagrafiche, di quello che è stato il Genocidio e la Shoah e quindi è partita da una cosa semplice. Spiega in pratica il concetto dell’Art. 2 della Costituzione che dice:

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Il suo obiettivo è rendere la memoria un qualcosa di attivo con l’ausilio del materiale che si è raccolto di quelle che sono le testimonianze delle persone che hanno vissuto delle esperienze drammatiche e che hanno avuto il coraggio “perché ci vuole un gran coraggio per mettere a disposizione del prossimo delle esperienze tanto importanti per sé.”
“Il lavoro che possiamo fare noi è raccogliere queste testimonianze, leggerle, conoscerle e farle nostre per trasferirle ai giorni nostri. Ma come attualizzare quel concetto? Si chiede Levi, come si può mettere in atto il concetto di discriminazione di un intero popolo? Questo non è un concetto astratto perché lo viviamo tutti i giorni quando discriminiamo un bambino disabile, quando discriminiamo il nostro compagno di banco perché i genitori professano un’altra religione, è un concetto che viviamo tutti i giorni e tante persone lo vivono sulla loro pelle”.

“Il concetto di memoria attiva nell’Art. 2, alcuni hanno avuto il coraggio di opporsi a quello che stava succedendo, molti invece no, ma perché non lo hanno fatto? Bisogna far comprendere ai giovani, che se vogliamo che questi eventi non accadano più, a fare sì che siano loro a rendersi conto che non devono commettere quell’errore, che devono prevenirlo prima, non bisogna chiudere gli occhi davanti a un atto di discriminazione di un loro compagno di scuola o qualunque persona. E portare i valori della Resistenza nella scuole ad opera dell’Associazione Nazionale Anpi e del Ministero della Pubblica Istruzione.”

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