Le notti bianche è un romanzo di Fëdor Dostoevskij, uno dei più importanti romanzieri e pensatori russi dell’Ottocento. Scritto a soli ventisette anni, questo breve romanzo è un’opera delicata e poetica in cui traspare il pensiero e il sentimento dell’autore che si rispecchia negli animi dei personaggi.
Trama de Le notti bianche
Un Sognatore passeggia per le vie di Pietroburgo e ci racconta i suoi intimi pensieri sulla città, sugli abitanti e sulle case, con cui ha un dialogo immaginario. Questo giovane uomo, dotato di grande sensibilità, vive nel suo mondo fantastico e non ha né amici né conoscenti con cui condividere i suoi momenti di gioia e di malinconia.
Una notte, vagabondando per la città, nelle sue solitarie passeggiate, si sofferma ad osservare una donna con un cappellino giallo e una mantellina nera, era addossata al parapetto del canale. Aveva lo sguardo fisso sull’acqua torbida e singhiozzava, immersa nei suoi pensieri. Il Sognatore le si avvicina con timidezza e incominciano a parlare.
Tra loro s’instaura un rapporto di reciproca comprensione e decidono di rincontrarsi anche la notte successiva per continuare le loro confidenze. Nasten’ka, il nome della donna, fa nascere nel giovane uomo un nuovo sogno pervaso da un sentimento di rinascita.
Il Sognatore le racconta dei suoi sogni che sostituiscono la realtà e dei suoi stati d’animo. Le chiede se una vita trascorsa in questo modo è delitto e peccato perché, in alcuni momenti, lo coglie l’angoscia nel pensare di non riuscire a vivere una vita reale e, solo grazie a lei, si sente riconciliato con se stesso.
Però, come la gioia e la felicità rendono bella una persona! Come arde d’amore l’animo tuo! Pare quasi che tu voglia riversare il tuo proprio cuore in un altro cuore, che tu voglia che tutto sia gaio e ridente! E com’è contagiosa questa gioia!
Nasten’ka, dal canto suo, gli confida di vivere con la vecchia nonna che la tiene legata a sé con uno spillo appuntato sugli abiti, e di ricorrere all’immaginazione per fuggire dalla solitaria quotidianità e dalla sensazione di noia. La sua speranza era nell’uomo che, dovuto partire per un viaggio d’affari a Mosca, le aveva promesso di ritornare dopo un anno per portarla via con sé. Da quel momento, Nasten’ka aspetta il ritorno dell’uomo ma, pensa che ormai l’abbia dimenticata.
Per quattro notti, il Sognatore e Nasten’ka s’incontrano per parlare delle loro storie condividendone i sentimenti. Ritrovano finalmente se stessi nell’atmosfera notturna delle notti bianche che però gioca di illusione e di nebbia sotto quel cielo dove nascono e muoiono i sogni; dove tutto quel che era si può perdere o ritrovare, finché la Chimera non balzerà loro contro, riportandoli alla realtà.
Perché leggere Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij
Leggendo Le notti bianche si ha la possibilità di parlare con Dostoevskij. È una lettera che ci rivolge come fosse un nostro amico che si confida a noi, ci pone delle domande e ci chiede di pensare a delle possibili risposte.
Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani, mio caro lettore. Il cielo era così stellato, così luminoso che, guardandolo, ci si chiedeva istintivamente: è mai possibile che sotto un simile cielo vivano uomini collerici e capricciosi?
Sono i pensieri di un sognatore che si rifugia nella sua dimensione onirica per allontanarsi da una realtà povera che non sente sua, che gli è estranea. Come spesso ci può accadere, i sogni compensano la realtà che ci può apparire triste, vuota e monotona. E nel romanzo si percepisce la solitudine e la sofferenza che angoscia il protagonista; tutte quelle ore passate a pensare, a domandarsi il perché, il come.
Il Sognatore percepisce delle sensazioni oscure, dei pensieri strani ma, non ha né la forza, né la volontà di risolverla ed è solo dopo l’aver conosciuto Nasten’ka, una persona che lo comprende, che trova la forza di reagire, di sentirsi vivo, così lieto, così felice.
Per entrambi, l’un l’altro rappresentano una nuova raffigurazione del loro mondo. Nasten’ka si illude inconsciamente pensando di aver dimenticato l’uomo che aspettava, di non soffrirne più e di vivere la propria vita accanto al Sognatore; il Sognatore, ormai riconciliato con se stesso, pensa di aver trovato una persona che lo ha capito e tirato fuori dall’angoscia di vivere solamente in una dimensione immaginaria.
Nonostante i sogni siano un rifugio dalla realtà che possiamo non sentire nostra, ci libera dalle convenzioni sociali e quando osserviamo qualcosa, l’inezia più comune, il fatto più insignificante assume un colore fantastico nella nostra mente; ma i sogni, abbiamo desiderio di viverli anche attraverso i nostri sensi.
Trasposizione cinematografica de Le notti bianche
Il regista Luchino Visconti, nel 1957, dirige le riprese del film Le notti bianche che vede Marcello Mastroianni nel ruolo del Sognatore e Maria Schell per interpretare Nasten’ka.
Il film uscì alla fine del periodo neorealista del cinema italiano e si pone in contrapposizione ad esso. Il Neorealismo era nato come reazione alla realtà offuscata del fascismo e, come dice la parola stessa, proponeva una visione della realtà nella sua crudezza.
Già dagli anni Trenta, nel cinema francese, si auspicava l’allontanamento dai teatri di posa, in cui i set erano ricostruiti, a favore di un’ambientazione della vicenda nei luoghi autentici. Il regista François Truffaut afferma in proposito:
“Con dieci anni d’anticipo sui cineasti italiani, Renoir inventò il neorealismo, cioè la narrazione minuziosa non di un’azione ma di un fatto di cronaca reale in uno stile obiettivo senza mai alzare il tono”
Visconti ha voluto invece riproporre, proprio negli anni in cui si andava elaborando un cinema “antispettacolare” la validità dello “spettacolo”, secondo lui, unica possibilità espressiva, di continuare un discorso sulla realtà che altrimenti sarebbe risultato vano. Sullo sfondo dei suoi film infatti ci sono le opere letterarie dei grandi capisaldi dell’Europa moderna: Balzac e Stendhal, Flaubert e Dostoevskij, Verga e Tolstoj, Cechov e Mann soprattutto, Proust e tanti altri, non a caso Visconti è definito un regista “letterario”.
Nasce così, nel Teatro 5 di Cinecittà, la straordinaria scenografia di Mario Chiari e Mario Garbuglia: astratta, eppure verosimile; avvolta in una nebbia di tulles; lastricata di intonaci e pavimentazioni vere; attraversata da un canale artificiale e navigabile; sovrastata da un cielo in movimento, ottenuto sovrapponendo e illuminando due enormi cristalli dipinti.
«Tutto deve essere come se fosse finto; ma quando si ha la sensazione che è finto, deve diventare come se fosse vero», diceva Visconti.
Un principio di contraddizione tra verità e verosimiglianza cui obbediscono tutti gli elementi del film: dall’accento artificiale e insieme misterioso della Schell, ai rumori naturali introdotti nell’ambiente ricostruito in teatro; dalla fotografia, impostata su base realistica, ma che illumina le scene in rapporto allo stato d’animo dei protagonisti. …
In questo incerto confine tra immaginazione e realtà , tra la coscienza della loro antinomia e l’ipotesi di una loro possibile identità, risiede tutto il senso poetico del film.
*A. Bencivenni, Luchino Visconti, Il castoro Cinema, Milano, 2008; pag. 40.